Chi si accontenta gode?

chi si accontenta gode davvero?

Chi si accontenta gode?

Chi si accontenta gode davvero? O gode solo a metà?Chi si accontenta gode così così“, come canta Ligabue? Cosa significa davvero questo proverbio da un punto di vista psicologico? Le risposte in questo articolo, con una mia intervista, pubblicato su OK Salute.

Chi si accontenta gode davvero?

È nella saggezza dei vecchi detti popolari che si nascondono i più grandi insegnamenti per la vita. Chi si accontenta gode. È nelle piccole cose che si annida la vera felicità. Chi troppo vuole nulla stringe. Li pronunciamo con ironia, ne sottolineiamo l’ovvietà, ma la vita di tutti i giorni ci mette di fronte continuamente la loro profonda verità. Nell’era del benessere e dell’abbondanza ci lamentiamo per ogni rinuncia, non tolleriamo le frustrazioni e i “no”, non godiamo dei traguardi raggiunti ambendo sempre al gradino più alto. L’insoddisfazione cronica genera un’infelicità che condiziona il modo di vivere il presente e di pensare al futuro. «Chi non è capace di accontentarsi vive un perenne stato di “gap” tra ciò che ha e ciò che vorrebbe raggiungere», spiega la dottoressa Alessandra Gorini, psicologa e ricercatrice del Dipartimento di scienze della salute e Centro di ricerca e intervento sui processi decisionali dell’Università degli Studi di Milano. «È come mettere la vita in pausa, in attesa che accada qualcosa di meglio, che però non eguaglia mai le proprie aspettative. Lo diceva anche Socrate: chi non è soddisfatto di ciò che ha non lo sarebbe neppure se avesse ciò che desidera».

Un’emozione che fa bene al cervello

L’ingratitudine rende ciechi, mentre essere riconoscenti nei confronti della vita paga. Secondo uno studio della University of Notre Dame (Indiana), chi vuole primeggiare a tutti i costi rischia di passare la vita a provare a raggiungere un obiettivo sempre più lontano e difficile, perdendosi la bellezza del qui e ora. I partecipanti alla ricerca più assetati di fama hanno lamentato una vita poco appagante. L’ambizione sfrenata li ha resi incontentabili: perfino chi aveva ottenuto una cattedra universitaria era deluso perché si riteneva degno di un premio Nobel. «Il rischio è di sviluppare una rigida severità verso se stessi che non prevede la possibilità di cadere, essere stanchi o avere bisogno di fare una sosta», spiega Chiara Venturi, psicologa e psicoterapeuta a Milano e Rimini. Psicologi della Hofstra University di Hempstead (New York) hanno invece scoperto che le persone consapevoli di quello che hanno, e felici di averlo, hanno una vita migliore sotto diversi aspetti. Hanno migliori relazioni sociali, non nutrono invidia nei confronti di chi ha di più, sono più ottimiste e ben disposte verso gli altri. «Da un punto di vista neurobiologico, un cervello soddisfatto produce sostanze, come neurotrasmettitori e ormoni, che hanno un rinforzo positivo sull’umore, oltre che sulla salute», spiega Venturi. «Ogni volta che siamo contenti, il cervello riceve un feedback positivo, come se gli dicessimo: “ti informo che sono felice”. Se ci abituiamo ad apprezzare ciò che abbiamo, avremo una percezione della vita più piena, fortunata e ricca. Che sia proprio il bacio della fortuna a procurare gioia? Troppo facile. È il contrario: lo dimostra un altro lavoro, questa volta dell’università della California, che spiega come sia la predisposizione interiore alla soddisfazione e alla contentezza ad attirare gli influssi positivi della vita e non viceversa. Lo prova il fatto che queste persone non perdono il sorriso quando tutto va storto, riuscendo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno. Il motivo? La gratitudine riduce lo stress, alimentando i pensieri positivi, chiarisce Robert Emmons, professore di psicologia presso l’Università della California. Andrebbe coltivata con cura e annaffiata tutti i giorni come una piantina nell’orto, perché se appassisce non riusciremo più ad apprezzare nemmeno il sorriso di un nipotino, i complimenti del collega, il piacere di un dono inaspettato. La rivista statunitense Forbes l’ha definita drift syndrome, l’incapacità di godere di ciò che ci circonda. Un male moderno: secondo uno studio di AstraRicerche e Bibite Sanpellegrino, sono quasi la metà (il 48,7%) gli italiani che riconoscono di non sapersi più entusiasmare.

Quando la felicità non arriva mai

Tramonti e spettacoli della natura non incantano più, al massimo vengono immortalati nello schermo piatto del telefonino. Coccole, piccole attenzioni, sorprese non sciolgono il cuore di chi punta sempre a qualcosa di più, sottolinea l’indagine. «I problemi di tutti i giorni spengono l’entusiasmo e impediscono di apprezzare ciò che di bello ci accade», spiega la dottoressa Venturi. «Nello sforzo di “sbarcare il lunario”, essere sempre in forma, esibire il successo raggiunto, si perde la capacità di trarre piacere da ciò che si ha la fortuna di possedere già. Abituati alla soddisfazione immediata dei desideri, costantemente connessi e pronti a ottenere all’istante qualsiasi informazione, si vive all’insegna del “tutto e subito”. Questo atteggiamento è in contrasto con il meccanismo naturale della mente, che ha bisogno di tempo, della capacità di attendere e tollerare le frustrazioni, per potersi evolvere. Inoltre, quando niente emoziona più, si può cedere alla tentazione di procurarsi soddisfacimento in modo artificiale, con abitudini anche pericolose (acquisti compulsivi, gioco d’azzardo) che “simulano” la felicità nel centro cerebrale della gratificazione, fornendo un appagamento immediato, ma passeggero e illusorio».

Chi si accontenta gode, ma accontentarsi non vuol dire sedersi

Il contesto non aiuta, perché etichetta impietosamente chi non pretende sempre il massimo. «Sono le aspettative sociali e una cultura improntata alla competizione che tendono a giudicare in senso negativo chi vive accontentandosi», sottolinea la psicologa. «Invece questa capacità non coincide con la passività o la mediocrità. Non significa smettere di desiderare o rinunciare ai propri sogni. Non è in antitesi con l’ambizione, con il desiderio di migliorare, evolverci, realizzarci. È possibile essere proattivi, determinati e combattivi ma allo stesso tempo essere felici di ciò che si ha, anche quando la vita chiede qualche rinuncia». Quando allora è giusto e legittimo fermarsi per apprezzare il momento? Lo spiega Alessandra Gorini. «Ci si accontenta in senso positivo ogni volta che si raggiunge un piccolo obiettivo, ci si dà il tempo di goderne per poi passare alla tappa successiva. Ciò che ci compiace oggi deve essere il punto di partenza per ciò che vorremo domani. È stato recentemente dimostrato che uno dei segreti della longevità sta nell’avere sempre desideri e obiettivi da raggiungere, senza lasciarsi andare passivamente alla vita che scorre. Accontentarsi ha quindi un significato positivo quando significa non essere sempre scontenti, lamentandosi di non aver fatto abbastanza, ma assume una connotazione negativa quando equivale a non avere traguardi a cui puntare».

Come metterla in pratica

Chi si accontenta gode, ma trovare il giusto equilibrio non è facile. «Uno dei segreti è darsi obiettivi raggiungibili e non illusori e poi puntare via via più in alto», consiglia Gorini. «Altrimenti si rischia di rimanere delusi ogni volta che non si riesce a centrare il bersaglio. Focalizzarsi su un gradino alla volta dà il giusto entusiasmo e la forza per andare avanti». Non tutti i desideri meritano di essere perseguiti: fate un esame di voi stessi in maniera onesta, analizzate ciò che veramente vi sta a cuore, cosa rende la vostra vita appagante. Stabilite delle priorità, discriminando tra ciò di cui si avete veramente bisogno e ciò volete possedere solo per un capriccio, o per esibirlo agli altri. Non siate egoisti. «La qualità delle relazioni è ciò che riempie un’esistenza e le dà un senso», afferma Venturi. «Il perfezionismo orientato in senso narcisistico spinge a considerare solo i propri bisogni. Spesso la costruzione di un progetto condiviso è più soddisfacente di obiettivi individuali e solitari». L’esperta segnala anche due trappole da cui stare alla larga. La prima è quella dell’ “anticipo dei desideri”. «Soddisfiamo i bisogni prima ancora di esprimerli: non coltivare il desiderio delle cose toglie il piacere di guadagnarsele e di goderne». Un esempio: l’abitudine a “indovinare” il finale di un film, per dimostrare acume e intelligenza, non fa che mortificare la fibrillazione dell’attesa, rivela una ricerca dell’Ohio State University e dell’Università di Hannover. L’altra è quella del confronto distruttivo. «Smettiamo di credere che la vita degli altri e i successi degli altri siano migliori dei nostri. I social ingannano, perché ci inducono a misurare il grado di soddisfazione di una persona sulla base della sua immagine pubblica. Chi è davvero felice non ha bisogno di esibirlo».

Un esercizio utile

«Annotate ogni sera tre cose della giornata che vi hanno resi contenti», consiglia Chiara Venturi. «Funziona perché insegna a considerare la riconoscenza come una scelta, un modo di essere. Spesso le persone rimangono sorprese di quanto le giornate, anche quelle “pessime”, siano in realtà ricche di motivi per gioire: momenti, dialoghi, incontri, notizie o eventi a cui, nella frenesia della giornata, non si dà importanza». Non viene in mente nulla? Riflettete meglio. Come scrive Barry Schwartz nel libro “The Paradox of Choice”, la lista della gratitudine il più delle volte non include eventi eccezionali, ma è fatta di piccole cose. Solo ogni tanto l’elenco annovera qualcosa di eclatante, come una promozione o un primo appuntamento da favola.

testo di Roberta Camisasca, 2018


A questo link, l’articolo “Imparare l’ottimismo – Pensieri positivi per vivere meglio“.

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